Ha ricevuto la cittadinanza carmagnolese lo scorso settembre 2019, ma è originario di Casalgrasso, Fratel Beppe Gaido, cinquantottenne medico chirurgo missionario cottolenghino, che da oltre 25 anni opera in Kenya in soccorso di una popolazione, quella del Kenya, bisognosa inevitabilmente di aiuti ospedalieri.
Mai come in questo periodo, anche con l’emergenza Covid 19 in sensibile aumento e che convive con difficoltà umane e altre malattie, l’allerta è sopra i limiti di guardia. Il virus è giunto forse con meno irruenza a Chaaria e Matiri, rispetto all’Italia, ma la situazione è anche qui di emergenza. In un continente dalle vaste dimensioni come l’Africa, la pandemia ha preso pian piano il sopravvento e si comprende quanto il Saint Orsola Hospital di Matiri, dove opera in questo momento Fratel Beppe, necessiti di tanto sostentamento e cure per i malati. Una realtà che vede ogni giorno profonde problematiche e i pazienti in cura sono vittime di traumi, fratture ossee, denutrizione, carestia, affetti da hiv o da tubercolosi e, ora, anche contagiati dal Coronavirus. Lo stesso male che ha bloccato tutto il mondo e che ha portato anche ai primi positivi e, purtroppo, alle prime vittime.
Fratel Beppe ha fotografato la situazione sommaria del Covid 19 in Kenya, con gli effetti di riflesso subiti dalla società, dal settore ospedaliero e dall’economia.
I vescovi africani hanno lanciato un appello di allarme legato al Covid 19 in Africa. C’è preoccupazione un po’ in tutto il continente?
«Sono molto preoccupati e seguono la situazione con grande attenzione. Sono sospese tutte le celebrazioni liturgiche come in Italia».
Che misure precauzionali sono state prese finora nello stato del Kenya?
« È stato predisposto un reparto per Coronavirus, con un numero limitato di letti a Nairobi.. Vi è inoltre un laboratorio governativo specifico per il tampone diagnostico. Alcune contee possono fare i tamponi, mentre altre no, come in quella del Tharaka. Questa settimana sono stati distribuiti camici, mascherine e occhiali di protezione agli ospedali governativi delle varie città, mentre i missionari non hanno ricevuto per il momento nulla. Le scuole sono chiuse».
Come si stanno attrezzando gli ospedali e i sistemi sanitari al problema Covid-19?
«Da luglio, mi sono spostato da una delle maggiori strutture sanitarie del Kenya, il Chaaria Mission Hospital, al St. Orsola Mission Hospital di Matiri, in una zona più rurale. Il problema comune ai due ospedali è la totale mancanza di preparazione al caso. Non abbiamo purtroppo la possibilità di fare diagnosi approfondite e dobbiamo trasferire quindi il paziente in strutture governative attrezzate. Come ospedali missionari abbiamo a disposizione pochi camici e mascherine. Quello che ci manca completamente invece è la possibilità di isolare i pazienti. A Matiri stiamo predisponendo un isolamento di 4 letti. Altro problema è la disponibilità di concentratori d’ossigeno in grado di assistere tutti nel modo giusto. In rianimazione abbiamo poi pochissimi posti letto, ma a pagamento. Nel Tharaka, dove si trova Matiri, la situazione è pressochè la stessa. Un paziente in rianimazione per Coronavirus consuma l’equivalente di 250 bombole di ossigeno nelle due settimane in cui è ventilato, quando noi ne abbiamo generalmente due al mese, quindi la situazione è grave».
Qualora l’epidemia dovesse espandersi maggiormente nel continente, quali sarebbero gli effetti, anche con l’aiuto dell’Oms?
«L’Africa è generalmente impreparata. Non ci sono rianimazioni, non abbiamo isolamenti e il personale medico è gravemente insufficiente. Il Kenya è una delle nazioni che sta meglio in Africa. Conosco paesi come il Sud del Sudan, la Repubblica democratica del Congo, dove non si riesce neppure ad avere ospedali forniti almeno di letti e farmaci essenziali, o del personale dell’acqua. Per adesso in Kenya i casi di Covid 19 sono 172, ma i test effettuati sono stati meno di 5000. Registriamo al momento 6 morti, tra cui un bambino di 6 anni, ma il rischio di mortalità è altissimo».
Quali sono le aree maggiormente a rischio? «Nairobi e la Costa sono le aree più colpite sinora. A rischio sono le baraccopoli delle grandi città, dove i poveri vivono ammassati in spazi superaffollati, ma certamente anche tutte le aree urbane dove l’affollamento è in genere la regola e dove spesso non c’è acqua».
Il contagio non ha al momento grandi numeri in Africa, come mai? Quali fattori hanno inciso in questa rilevazione? « Credo che i pochi tamponi effettuati possano anche tradire, lasciandoci dubitare che ci siano più casi di Coronavirus. C’è poi chi dice che il Covid 19 muoia a 26 gradi e quindi qui sarebbe troppo caldo. Dubito su questa teoria. visto che è provato sopravvive nell’organismo a 37 gradi. Credo piuttosto che l’Africa, per motivi di povertà, viaggi molto meno rispetto a Europa, America o Asia e questo possa essere un vantaggio, così come i villaggi rurali lontanissimi l’uno dall’altro».
Dal punto di vista economico, quali potranno essere le ripercussioni? «Certamente per noi, il fatto che l’Italia sia bloccata è una grossa perdita economica, perché una percentuale molto alta dei turisti della Costa sono italiani. Il blocco delle importazioni di farmaci dalla Cina è un altro grande problema che ne porterà scarsità e prezzi più alti per quelli venduti nel paese.Molte persone inoltre non hanno reddito fisso o sono disoccupate, non potendo di conseguenza nutrire i figli.. Il lockdown, non ancora nazionale, se non per alcune regioni, sta portando anche fame e povertà su tutto il Kenya ed è in vigore un coprifuoco notturno».